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EGM.
marzo 2012 /
Publicación semestral. ISSN: 1988-3927. Número 10, marzo 2012.

Omaggio a Gramsci

Nino Carrus

 

Riassunto. Questo saggio è stato pubblicato nel volume “Omaggio a Gramsci” (Tema Editore, Cagliari, 1994) che contiene i testi di conferenze per commemorare il centenario della nascita di Antonio Gramsci, organizzato dall’Istituto Gramsci della Sardegna nell 1991. Abbiamo intenzione di onorare l’autore di questo testo, Nino Carrus, e la figura che lui vuole ricordare.

Parole chiave: Nino Carrus, Gramsci

Resumen. Este ensayo fue publicado en el volumen “Omaggio a Gramsci” (Tema Editore, Cagliari, 1994) que recoge los textos de las jornadas de conmemoración del centenario del nacimiento de Antonio Gramsci organizadas por el Instituto Gramsci de Cerdeña en 1991. Queremos así homenajear tanto al autor del texto, Nino Carrus, como a la figura que él recuerda.

Palabras clave: Nino Carrus, Gramsci

Premessa

Nel 1991 l’Istituto Gramsci della Sardegna è promotore di numerose e qualificate iniziative nell’ambito delle celebrazioni del centenario della nascita di Antonio Gramsci. In questo contesto si inserisce la commemorazione, avvenuta la mattina del 22 gennaio durante una seduta solenne del Consiglio Comunale della città di Oristano, del Deputato Nino Carrus. Il suo intervento —riportato originariamente in un volume intitolato “Omaggio a Gramsci” pubblicato nel 1994 dall’editore Tema, Cagliari— è rivelatore del risaputo umanesimo che impronta la sua metodologia, sempre protesa ad una visione antropologica di fondamento metafisico. Ecco che allora, nel tentativo di pervenire a una visione globalizzante di Antonio Gramsci mediante un approccio empatico, ciò che a suo avviso demarca la persona, il pensiero, l’intera esistenza del Gramsci è la centralità dell’uomo e della sua totale liberazione. In questa profonda intuizione, nel cogliere quale metro unificante di ricerca gramsciana la difesa della dignità umana, il pensiero dell’on. Carrus si pone quale elemento di raccordo tra i due grandi universi culturali cattolico e marxista.

Mi sforzerò di non usare gli artifici della retorica per commemorare Antonio Gramsci. Retorica sarebbe utilizzare la metafora crociana di quel che è vivo e quel che è morto di Antonio Gramsci, della sua opera; retorica sarebbe svolgere un’accurata analisi di quel che ci va bene e di quel che ci va male degli scritti di Antonio Gramsci, utilizzando scritti diversi, contesti esistenziali diversi, epoche diverse.

Tutti noi abbiamo visto, anche in questi giorni in qualche scritto e in qualche discorso, i pensieri di Antonio Gramsci appiattiti in un unico momento, come una pellicola che dura 25 anni ridotta ad un solo fotogramma. E questo per dimostrare che le nostre tesi potevano essere avvallate dalla autorità del suo pensiero.

Retorica sarebbe andata a cercare chi oggi possieda l’urna delle ceneri di Antonio Gramsci: chi è oggi l’improbabile prete di un furbesco rituale gramsciano nel quale il pensiero produttivo, e perciò mutevole, magmatico, viene ridotto ad un feticcio, ad una laica reliquia, le ceneri, appunto, di cui qualcuno vuole essere l’esclusivo depositario?

Io non mi eserciterò in una defatigante certificazione di esistenza in vita di questa o quella intuizione gramsciana, né in una accurata analisi di qualcuna —una, poche, moltissime— delle più incisive ed icastiche intuizioni gramsciane per poi approdare ad una improbabile sintesi da cui si concluda che tutti gli siano debitori di qualche frangia, grande o piccola, scoperta o remota, dei nostri convincimenti. Né in una utilitaristica ricerca di qualche sua tesi di fondo con cui possiamo persuadere qualcuno che, in fondo in fondo, una parte dell’eredità di Antonio Gramsci, delle sue ceneri appunto, è rimasta anche nelle nostre mani.

Credo che invece il modo migliore per ricordare Antonio Gramsci sia quello di averne una visione totale e globalizzante, sarei tentato di dire una visione sistemica, in cui Antonio Gramsci venga ricordato nella sua totalità di persona umana integrale e non nella consuetudinaria dissezione, quasi brutalmente anatomica, di scrittore, di dirigente politico, di deputato, di filosofo politico, di carcerato, di antifascista, di antistalinista, di moralista e così via.

Ci è dato, invece, di rendere possibile e di mantenere l’integrità e la totalità della sua persona o di continuare nello sforzo, che peraltro da molti anni molti studiosi vanno facendo, di restituire al nostro ricordo la sua persona, con quella sintesi di profondo sentimento amorevole e di acuta intelligenza introspettiva che un grande personaggio intellettuale di questo secolo, la filosofa Edith Stein, ha definito il concetto di empatia.

Abbiano noi la capacità di porre in essere, nei confronti di Antonio Gramsci come persona totale —evito scrupolosamente di parlare delle opere, del pensiero, della filosofia di Antonio Gramsci— atti empatici, cioè di comunicazione? Atti, cioè, con i quali facciamo un tentativo di cogliere il senso della vita vissuta da un’altra persona nella sua coscienza interiore e nei suoi atti interiori, realizzando così una comprensione sintetica, interpersonale, il più possibile veridica, in cui possiamo essere coinvolti noi stessi, sia sentimentalmente che intellettualmente? Questo mi sembra l’approccio migliore, capace di cogliere ogni giorno qualcosa di più e qualcosa di nuovo in Antonio Gramsci, capace di creare quella soggettività intersoggettiva di cui hanno tentato di fare scempio, per esempio, le prime visioni delle Lettere e dei Quaderni del carcere.

E’ questo un modo per cogliere uno dei più grandi insegnamenti morali di Antonio Gramsci: il rifiuto della doppia verità e del machiavellismo intellettuale. La verità è una: è l’uomo, con le sue sofferenze e le sue ambiguità; è l’uomo, proprio l’uomo. La verità è insieme un progetto di liberazione dell’uomo che coinvolge, senza alternativa di strumentalizzazione, chiunque crede nell’uomo. Il rifiuto della doppia verità, in tutto e per sempre, richiede non tanto una capacità filologica nei confronti del testo gramsciano —anche questa certamente è necessaria, ed è necessario che sia rigorosa— quanto invece un’attitudine interpretativa, ermeneutica, che sola può realizzare il miracolo della comprensione interpersonale, ma non si riduce ad una intimistica comunicazione fra le anime; essa può condurre invece ad un comune senso della vita e dell’esistenza profondamente condiviso.

Questo sforzo di comprensione totale di Antonio Gramsci ci permette di superare quella formale consonanza dei linguaggi simbolici che sono l’essenziale alfabeto dei sistemi ideologici e ci permette di trascurare, trasgredendole, le regole sintattiche della comunicazione ideologica. Ci consente invece di approdare, non senza difficoltà, non senza fatica —e, sto per aggiungere, non senza ambiguità— alla comprensione della mancanza di senso della vita di tanti milioni di esseri senza speranza, che non solo sono nei mondi geografici diversi dal nostro (il secondo, il terzo ecc.) o nei mondi religiosi diversi dai nostri (l’Islam, l’animismo ecc.) o nei mondi ideologici che gli uomini si costruiscono. No, questi esseri senza speranza sono numerosi e tendono a crescere anche intorno a noi, violenti per sé, per gli altri, per l’uomo. Soltanto un approccio empatico, appunto, fondato sull’uomo come persona, ci consente di restituire all’oggettività Antonio Gramsci nel suo rapporto con noi, con tutti noi.

Non soltanto il rifiuto della verità come dato esistenziale, ma soprattutto come metodo di conoscenza, ci consente di costruire questo rapporto fecondo e vitale con una persona, ed è lo stesso Antonio Gramsci a dirci che per costruire una concezione del mondo anche non esposta sistematicamente è necessario, oltre che una fatica minuziosa di decifrazione dei testi, soprattutto, cito testualmente, il “massimo scrupolo di esattezza, di onestà scientifica, di lealtà intellettuale, di assenza di ogni preconcetto ed apriorismo o partito preso” (è uno scritto del 1933).

Non è forse questa posizione —non è, io sono convinto che non lo sia— il risultato della meditazione carceraria, di quel senso più sereno e compassato di distacco, anche se più carico di sofferenze fisiche, morali e intellettuali che sembra proprio della letteratura che nasce dentro le istituzioni esclusive, sia che questa letteratura siano i Quaderni del carcere, sia che siano La montagna incantata di Thomas Mann. Perché anche nel 1919, in una temperie più sanguigna e volitiva per Antonio Gramsci, su L’Ordine Nuovo interpretava la rivoluzione come la protesta del divenire storico contro ogni irrigidimento e ogni impaludamento del dinamismo sociale: “La critica marxista dell’economia liberale è la critica del concetto di perpetuità degli istituti economici e politici: è la riduzione a storicità e contingenza di ogni fatto”. E perché questa critica marxista non dovrebbe valere anche quando le economie pianificate centralmente vengono irrigidite dalle burocrazie imbalsamatorie che storicamente si succedono?

Non si può essere in questa tradizione profonda di Antonio Gramsci senza andare a sfogliare, giorno per giorno, il calendario del 1989 o del 1990, di questi due anni che rendono gramscianamente vedenti anche i ciechi e dovrebbero rendere gramscianamente attenti anche i più distratti. Qualcuno potrebbe essere indotto a ritenere l’Antonio Gramsci di questi articoli indulgente verso un relativismo storicistico, quasi pagasse un obolo non indifferente verso i più sistematici lidi della Weltanschauung marxiana. Vi prego di riflettere su questo brano ordinovista (bisognerà attendere più di 50 anni per ritrovare nella sconvolgente lettura della profezia di Isaia di Giorgio La Pira un’affermazione così netta, così empaticamente coinvolgente per credenti e non credenti): “Lo scisma del genere umano non può durare a lungo. L’umanità tende all’unificazione interiore ed esteriore, tende ad organarsi in un sistema di convivenza pacifica che permetta la ricostruzione del mondo”. Non credo che padre Teilhard de Chardin sia debitore a Gramsci di qualcosa, ma credo che entrambi abbiano avuto un comune empatico sentire in termini di ominizzazione dell’universo fisico.

Ecco dunque un Antonio Gramsci persona unica, che ha un metro unificante di ricerca: l’uomo e la sua totale liberazione. E non solo quando l’isolamento carcerario lo fa essere espressamente antistalinista, come ci ha mostrato con una documentazione ineccepibile e commovente, appena qualche giorno fa in libreria, Peppino Fiori; per la libertà e per la dignità dell’uomo non solo in carcere, dunque, ma lungo tutto il suo intero vissuto esistenziale.
Questa profonda convinzione morale, prima che intellettuale, lo porta persino ad ipotizzare che tutto il sistema della filosofia della prassi può divenire caduco in un mondo unificato.

Questo collocare l’uomo, tutto l’uomo, tutti gli uomini, al centro delle sue preoccupazioni intellettuali e delle sue tensioni morali pone Antonio Gramsci quale coscienza critica postmoderna nel nostro mondo contemporaneo, come compagno insostituibile di tutte le battaglie perché non venga schiacciata la dignità dell’uomo; ma non soltanto sul piano meramente esistenziale o sul piano astrattamente intellettuale bensì, al contrario, sul piano di una globale concezione del mondo, di una totale concezione del senso della vita. Nonostante il suo dichiarato debito intellettuale nei confronti di Benedetto Croce, dirà nel 1932, definendo la religione della libertà (cito dalla edizione einaudiana delle Lettere): “Religione della libertà significa semplicemente fede nella civiltà moderna, che non ha bisogno di trascendenze e rivelazioni ma contiene in se stessa la propria razionalità e la propria origine”.

Ma questa è una definizione critica, è una denuncia dell’insufficienza della modernità che apre all’esigenza di un terreno postmoderno totalmente alternativo, di un campo di riflessione e di azione totalmente nuovo, che va trattato ancora su tutti i piani come il “quasi infinitamente inesplorato”. Questo collocare l’uomo, tutto l’uomo e tutti gli uomini al centro delle sue preoccupazioni è quello che ci deve indurre a considerare Gramsci come persona intera e non come studioso o come filosofo, o come politico, o come qualche cosa che in qualche modo debba essere dissezionato e analizzato. Aver fatto dell’uomo e del progetto di liberazione del- l’uomo la stella polare della sua vicenda esistenziale porta Antonio Gramsci a capire (pur con le scarsissime informazioni di cui disponeva rispetto a non pochi altri intellettuali di formazione marxista), a cogliere, con lucide e profetiche anticipazioni, la intrinseca disumanità dello stalinismo e l’indissolubile nesso che deve legare democrazia e socialismo, per cui nessuna delle due conquiste di questo secolo può essere umana se non si accompagna l’una all’altra. Non si tratta però di un artifizio machiavellico per rendere sopportabile l’una o meno ingiusta l’altra, snaturandole entrambe o snervandone le peculiarità essenziali: è sempre la conseguenza del rifiuto della doppia verità e dell’adozione, costi quel che costi, del metodo dell’onestà intellettuale come scelta assolutamente discriminante su tutto.

Consentitemi di citare alcune testimonianze che Peppino Fiori ha fatto, nel suo ultimo libro, del periodo di maggiore impegno antistalinista di Gramsci. E’ la testimonianza di Giuseppe Berti:

Per Gramsci, come una politica errata non diventa giusta se viene realizzata coi metodi migliori, così una politica giusta se viene perseguita con metodi sbagliati, deprecabili, spezzando l’unità del partito, usando la violenza e l’arbitrio.

Per Gramsci, fini e mezzi —ecco il rifiuto pratico del machiavellismo— non possono venire arbitrariamente disgiunti e contrapposti. Sono aspetti di una stessa realtà e vanno assunti e considerati insieme. Ed è sempre questa concezione che lo porta a rifiutare energicamente le tesi del social-fascismo sancite dal VI Congresso dell’Internazionale del 1928.

Tesi stalinista che doveva rivelarsi una rottura per la resistenza a tutti i fascismi europei; tesi pavidamente non combattuta anche da chi, in altre condizioni, l’avrebbe, fruttuosamente per la lotta anti-fascista, sostenuta e adottata successivamente.

Consentitemi un’altra citazione; secondo la testimonianza di Lisa

per Gramsci nel partito troppo sovente si ha paura di tutte quelle denominazioni che non fanno parte del vecchio frasario massimalista. Si pensa alla rivoluzione proletaria come a una cosa che a un certo momento ci si presenti tutta compiuta.
Sono parole che Lisa riproduce testualmente dalle conversazioni di Gramsci.
Ogni azione tattica che non sia in rispondenza con il soggettivismo dei sognatori è considerata in genere come una deformazione della tattica e della strategia della rivoluzione. Così si parla sovente di rivoluzione senza avere precisa la nozione di ciò che occorre per compierla, dei mezzi per raggiungere il fine. Non si sanno adeguare i mezzi alle diverse situazioni storiche. Si è in genere più propensi a fare delle parole che dell’azione politica e si confonde l’una con l’altra.

Credo che questa sia la più bella, senz’altro la più icastica delle definizioni del rifiuto della doppia verità.

Perché ricordo queste cose in una celebrazione che potrebbe anche essere più formale, più scandita sulle ali di una retorica che tiene uniti perché non si dicono le verità amare? Non dire la verità significa dimenticare l’unitarietà della vicenda esistenziale di Antonio Gramsci. Oggi, invece, come in una filigrana possiamo leggere tutta la trama di un metodo che ci ha potuto liberare dai fascismi di ieri, che ci può liberare dai vincoli diabolici delle oppressioni di oggi, che ci consentirà di percorrere lunghi cammini per la liberazione di tanti esseri umani. Il perché lo troviamo in una brevissima lettera al figlio Delio, scritta nell’ultimo anno della sua vita:

Carissimo Delio, mi sento un po’ stanco e non posso scriverti molto. Tu scrivimi sempre e di tutto ciò che ti interessa nella scuola. Io penso che la storia ti piace, come piaceva a me quando avevo la tua età, perché riguarda gli uomini viventi e tutto ciò che riguarda gli uomini, quanti più uomini è possibile, tutti gli uomini del mondo in quanto si uniscono tra loro in società e lavorano e lottano e migliorano se stessi, non può non piacerti più di ogni altra cosa. Ma è così? Ti abbraccio. Antonio.
E qui mi fermo. Non saprei concludere questa celebrazione con parole diverse.

Notas

Accessibile nel archivi on-line della Associazione Culturale Nino Carrus.

Nino Carrus. Breve profilo biografico

Nino Carrus, uomo politico ed economista, nato a Borore, Italia, il 9 Gennaio 1937, morto a Cagliari, Italia, l’8 Maggio 2002.

Laureato in Giurisprudenza, Professore di “Economia dei mercati agricoli” presso la Facoltà di Scienze Agrarie dell’Università degli Studi di Sassari e, successivamente, Professore di “Teoria dello Sviluppo Economico” presso la Facoltà di Economia e Commercio dell’Università degli Studi di Cagliari.

Ha iniziato la sua carriera presso l’Ufficio Studi della Banca d’Italia, Roma e, successivamente, entra a far parte del Centro Regionale di Programmazione della Regione Autonoma della Sardegna.

Nella lunga carriera politica ha ricoperto numerosi incarichi di partito e di governo a livello nazionale e regionale: eletto alla Camera dei Deputati del Parlamento Italiano dal 1983 al 1992; Vice-Presidente e Responsabile economico del Gruppo Parlamentare della Democrazia Cristiana alla Camera dei Deputati; nella Camera dei Deputati ha fatto parte della Commissione Finanze e Tesoro e della Commissione Bilancio e Programmazione; Membro del Consiglio Regionale della Regione Autonoma Sardegna dal 1969 al 1983; Assessore Regionale alle Finanze, agli Enti Locali, all’Urbanistica dal 1977 al 1980; Presidente della Commissione Bilancio e della Commissione Programmazione del Consiglio Regionale Regione Autonoma della Sardegna; Segretario del partito della Democrazia Cristiana nella Provincia di Nuoro e Vice-segretario Regionale della Sardegna.

Colpito da una grave malattia degenerativa, è morto a Cagliari, Italia l’8 Maggio del 2002.

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